14-01-2015
Riflettori su `biologico` e `chilometro zero` - di Dario Casati.
Recenti episodi giunti alla ribalta della stampa e della televisione hanno riportato in luce la complessa situazione delle denominazioni per i prodotti agricoli ed alimentari. Ora si sono accesi i riflettori sui prodotti biologici e a “chilometro zero”, in precedenza su quelli a denominazione d’origine, sempre su quelli contraffatti e sui danni che arrecano all’alimentare italiano. Prima di essere travolti dall’informazione strillata dei grandi mezzi di comunicazione e di occhiuti uffici stampa si impone qualche riflessione. Tutto il comparto agricolo e alimentare italiano crede molto alla valorizzazione economica di prodotti che per qualche requisito, come il metodo di produzione o l’origine, si differenzino da quelli più generici presenti sul mercato e che si battono fra loro in una competizione basata solo sul prezzo. La differenziazione è alla base delle moderne politiche di marketing, ma è vecchia come il mondo e permette di vendere un prodotto che è, o sembra o è ritenuto, diverso dagli altri e dunque si sottrae alla competizione di prezzo. Insomma, è la politica delle grandi marche o delle grandi firme trasferita a marchi e firme collettivi perché le imprese agricole e molte di quelle alimentari mal si prestano in genere alle classiche politiche di marca. Anche questa scelta non è una novità. Ma è difficile, costosa in termini economici e di vincoli produttivi, complessa e non sempre economicamente pagante. Anche da noi, come in Francia, vini, formaggi e salumi dominano il quadro delle denominazioni. Fra gli alimentari, con qualche eccezione, prevalgono prodotti di origine animale. Per quelli vegetali è difficile estendere il modello e cresce la strada del bio. L’una e l’altra interessano a tutt’oggi percentuali modeste del valore della produzione agricola ed alimentare, dell’esportazione e dei consumi, anche se crescenti e promettenti in termini di redditività nei casi di successo. Gli incidenti di percorso mostrano che è necessaria molta attenzione. Troppe denominazioni sono al di sotto di una soglia dimensionale che ne giustifichi la costituzione. I primi 5 prodotti concentrano di fatto il 90% di fatturato, consumi ed esportazione, lasciando alle restanti centinaia le briciole di una ricca tavola. Altri si valorizzano solo al momento dell’esportazione, come l’aceto balsamico. Altri ancora come le mele in termini di volume, più che di valore. Tutte sono però minate dai comportamenti opportunistici di alcuni produttori e dalla concorrenza sleale dei free riders, cioè di chi tende ad approfittare dei vantaggi sottraendosi ai vincoli, gli imitatori e i contraffattori. Su tutto incombe la logica del gendarme e cioè quella che reclama l’infittirsi dei controlli, della presenza dello stato, la protezione di un’Ue che sul tema è poco sollecita, anche perché esso interessa quasi solo i paesi mediterranei e, nel mondo, l’Europa ma non gli altri continenti: su circa 1200 denominazioni, quelle extraeuropee sono solo 5. Accade così che la strada sia solo in salita e che occorra pensare ad altre modalità di costituzione, organizzazione e gestione delle denominazioni, in cui assumano un peso ed una responsabilità crescenti i produttori, quelli seri e responsabili. Intanto già si trovano in vendita in Italia prodotti che contraffanno quelli di altri paesi europei e che sono ottenuti da noi. Che sia la risposta del solito genio italico?